Incredibile, ma vero! Ai giorni nostri il primo requisito richiesto a uno Chef de cuisine non è tanto il saper stare ai fornelli e il saper preparare pietanze di qualità, bensì l’essere telegenico.
La spettacolarizzazione della cucina ha ormai creato uno star system, una sorta di semi impostura che pretende di stabilire la graduatoria di quelli che dovrebbero essere i “maestri” cucinieri, ma che spesso fanno carriera per meriti di altra natura. Eppure la cucina è sempre stata e resta un gesto d’amore, un modo di prendersi cura degli altri.
Il vero cuoco comprime quotidianamente la sua passione dentro le specialità che prepara. La sua figura non può e non deve essere quella della finzione, della teatralità ostentata come su un palcoscenico, delle false ricette cosiddette della tradizione, osannate ma quasi mai praticate, delle stelle, delle trasmissioni televisive, delle indicazioni guidaiole.
C’era una volta la cucina del territorio e delle stagioni: un presidio di cultura, un pensiero, un atto d’amore. Lucida ostinazione a difesa della tradizione e dell’identità. Concerto di sapori franchi, senza fronzoli, ad alto tasso di autenticità. Quella cucina c’è ancora, per fortuna. Con una differenza sostanziale: quella di ieri indugiava meno alla creatività, restava fedele a regole, modi di fare tramandati per generazioni. Sperimentava, ma lo faceva con grande cautela. Non si avventurava in accoppiamenti temerari. Non si lasciava assillare da esasperazioni salutistiche, da manìe dietetiche, da attenzioni allergeniche, come invece fa la cucina di oggi che si è via via disancorata dai suoi nobili, antichi codici. Si è, per così dire innovata, ma non senza stravolgimenti.
Nell’epoca dei grandi chef, dei cuochi stellati, della proliferazione dei premi e dei concorsi enogastronomici si ha, da un lato, una migliore conoscenza degli ingredienti, delle tecniche di preparazione e di cottura degli alimenti e, dall’altro, una pericolosa corsa verso la novità a tutti i costi: quella che incanta, quella che stupisce.
Saggezza vuole che ogni eccesso sia negativo. E’ il caso di dire: “Il troppo stroppia”. Non vi è dubbio che le cosiddette varianti creative rischiano di inquinare la “memoria dei sapori” presente in ognuno di noi e di allontanare la cucina dalle sue origini storiche e geografiche. Il che rappresenta un grosso danno per tutti.
Ben venga, quindi, la creatività ma senza esagerare. I cuochi pensino a soddisfare le esigenze del palato e dell’olfatto. A quelle della vista continueranno a pensarci i maestri delle arti figurative.
Non dimentichiamo che la cucina è cosa diversa dalla fucina. La capacità creativa ha un valore quando riesce a disegnare il presente e il futuro senza cancellare il passato, quando è capace di innovare senza rinnegare, quando mantiene saldo il legame con il terroir, inteso alla francese come “l’insieme delle pratiche, dei comportamenti e dei valori condivisi da una comunità, riconosciuti come i più rispondenti alle sue esigenze, tramandati di generazione in generazione oralmente, per assimilazione, per imitazione.”
E’ tutto qui il rispetto della cultura di un luogo. Il resto è solo moda, paccottiglia, campione senza valore.